lunedì 31 marzo 2008

Arthur Schopenhauer


Biografia

Figlio di un ricco mercante, Heinrich Floris, e di una scrittrice, Johanna Henriette Trosiener, nel 1805, alla morte del padre, si stabilì a Weimar con la madre. Qui conobbe Christoph Martin Wieland e Georg Wilhelm Friedrich Hegel. Contrario ad ogni mondanità, si ritirò in solitudine per portare a termine gli studi. Nel 1809 s'iscrisse alla facoltà di medicina a Gottinga. Due anni dopo, nel 1811, si trasferì a Berlino per frequentare i corsi di filosofia. Ingegno molteplice, sempre interessato ai più diversi aspetti del sapere umano (frequentò corsi di fisica, matematica, chimica, magnetismo, anatomia, fisiologia, e tanti altri ancora), nel 1813 si laureò a Jena con una tesi Sulla quadruplice radice del principio di ragion sufficiente e, nel 1818, pubblicò la sua opera più importante, Il mondo come volontà e rappresentazione che ebbe tuttavia scarsissimo successo tra i suoi contemporanei. Anche le successive edizioni del trattato furono accolte assai sottotono, nonostante fossero giunti, da più parti, persino riconoscimenti ufficiali, primo fra tutti la vittoria di un concorso indetto dalla Società delle Scienze norvegese, che egli conseguì nel 1839 con un trattato Sulla libertà del volere umano.

Dopo aver girato in lungo ed in largo l'Europa, e dopo una breve parentesi da libero docente universitario a Berlino (1820), dal 1833 decise di fermarsi a Francoforte sul Meno dove visse da solitario borghese, celibe, misogino. La vera affermazione del pensatore si ebbe solo a partire dal 1851, data della pubblicazione del volume Parerga e paralipomena, inizialmente pensato come un completamento della trattazione più complessa del Mondo, ma che venne accolto come un'opera a sé stante, uno scritto forse più facile per stile e approccio e che, come rovescio della medaglia, ebbe quello di far conoscere al grande pubblico anche le opere precedenti del filosofo. Fondamentalmente in pieno accordo con i dettami della sua filosofia, manifestò un sempre più acuto disagio nei confronti dei contatti umani (ciò che gli procurò, in città, la fama di irriducibile misantropo) e uno scarso interesse, almeno in via ufficiale, per le vicende politiche dell'epoca quali furono, ad esempio, i moti rivoluzionari del 1848); i tardi riconoscimenti di critica e pubblico servirono, suppositivamente, ad attenuare i tratti più intransigenti del carattere del filosofo, ciò che gli procurò negli ultimi anni della sua esistenza una ristretta ma interessata e fedelissima cerchia di (come egli stesso amò definirli) devoti "apostoli", tra cui il compositore Wagner. Morì di pleurite, nel 1860

Influenze

Nella sua filosofia, Schopenhauer fu senz'altro influenzato da vari autori:

  • Platone: nella teoria delle "idee", forme eterne dell'Iperuranio
  • Kant: Schopenhauer riprende i termini del problema kantiano del rapporto fra le cose come ci appaiono (fenomeno) e le cose in sé (noumeno). Il fenomeno, ovvero le cose come ci appaiono che elaborate dalle forme a priori di spazio e tempo e dalla categoria di causalità (Kant ne aveva identificate 12 invece) da vita alla scienza è oggettivo ma non vero, perché offuscato dal 'velo di Maya, ovvero un velo che impedisce ai sensi di percepire la realtà. Le cose in sé, il noumeno è, a differenza di quanto diceva Kant, conoscibile, e consiste nella volontà di vivere, presente in ogni cosa dell'universo.
  • Illuministi: Schopenhauer analizza il mondo da un punto di vista fisiologico, è critico e rifiuta l'Idealismo. In particolare riprende da Voltaire l'atteggiamento ironico e demistificatore nei confronti di religioni, credenze popolari e superstizioni.
  • Romanticismo: riprende alcuni temi: l'irrazionalismo, il dolore, l'importanza (catartica) dell'arte e della musica. Richard Wagner, in particolare, modificò la sua concezione dopo aver letto Il mondo come volontà e rappresentazione, specie nel testo della Tetralogia (la cessazione della volontà di vivere che accompagna il personaggio di Wotan) e nel Tristano e Isotta. Nel Tristano, però, a torto si esagerò l'influenza del filosofo sul musicista.
  • Spiritualità indiana: Schopenhauer la conosce attraverso Frederich Mayer; ammira molto la sapienza orientale, tanto da metterne il sapore nelle proprie opere: molte espressioni e immagini fanno parte del repertorio indiano. Allo stesso modo, il Parsifal di Wagner ne ricalca la medesima concezione.
  • Riprende la teoria del Nirvana, che è un mondo dove l'uomo non desidera, che si raggiunge attraverso 3 momenti:
    • giustizia, che ci porta a considerare la volontà di vivere come un'istanza collettiva e non individuale;
    • compassione, che ci porta a superare l'eros per amare il prossimo condividendone il dolore, simile appunto al nostro;
    • ascesi, che è uno stato di castità che ci serve per annullare il desiderio e raggiungere così il nirvana.

Temi principali

Mondo della rappresentazione come "Velo di Maya"

Il punto di partenza della filosofia di Schopenhauer è la distinzione tra fenomeno e cosa in sé. Per fenomeno egli intende la parvenza, l'illusione, il sogno, il cosiddetto "velo di Maya"; mentre per noumeno egli intende una realtà che si nasconde dietro l'ingannevole trama del fenomeno, e che il filosofo ha il compito di scoprire. Il fenomeno di cui parla Schopenhauer è una rappresentazione che esiste solo dentro la coscienza, "il mondo è la mia rappresentazione". La rappresentazione ha due aspetti essenziali: il soggetto rappresentante e l'oggetto rappresentato. Soggetto e oggetto esistono soltanto all'interno della rappresentazione. Non ci può essere soggetto senza oggetto. Anche Schopenhauer ammette l'esistenza di forme a priori nella nostra mente, ma a differenza di Kant (per quest'ultimo sono 12), egli ne ammette solo tre, ovvero spazio, tempo e causalità. Quest'ultima è l'unica categoria in quanto tutte le altre sono riconducibili ad essa. La causalità assume forme diverse a seconda degli ambiti in cui opera, manifestandosi come necessità fisica, logica, matematica e morale, ovvero come principio del divenire, del conoscere, dell'essere e dell'agire. Schopenhauer paragona le forme a priori a dei vetri sfaccettati attraverso cui la visione delle cose si deforma, egli considera la rappresentazione come una fantasmagoria ingannevole, traendo la conclusione che la vita è sogno, cioè un tessuto di apparenze o una sorta di incantesimo, che fa di essa qualcosa di simile agli stati onirici. Ma al di là del sogno esiste la realtà vera, sulla quale l'uomo, o meglio il filosofo che è nell'uomo, non può fare a meno di interrogarsi. Infatti sostiene Schopenhauer che l'uomo è un animale metafisico, che è portato a stupirsi della propria esistenza e a interrogarsi sull'essenza ultima della vita.


Caratteri e manifestazioni della volontà

La volontà presenta caratteri contrapposti a quelli del mondo della rappresentazione, in quanto si sottrae alle forme a priori di quest'ultimo. La volontà primordiale è inconscia. Di conseguenza, il termine volontà preso in senso metafisico-schopenhaueriano, non si identifica con quello di volontà cosciente, ma con il concetto più generale di energia o di impulso. La volontà è anche eterna e indistruttibile, ossia un Principio senza inizio né fine. La volontà si configura anche come una forza senza una causa ed uno scopo. Infatti noi possiamo cercare la ragione di questa o quella manifestazione fenomenica della volontà, ma non della volontà in se stessa, come chiedere ad un uomo perché voglia questo o quello, ma non perché voglia in generale. "Perché c'è in me una volontà irresistibile che mi spinge a volere". Infatti la volontà primordiale non ha una meta oltre se stessa: la vita vuole la vita, la volontà vuole la volontà, e ogni motivazione o scopo cade entro l'orizzonte del vivere e del volere. Per Schopenhauer miliardi di esseri non vivono che per vivere e continuare a vivere. Questa è la sua triste realtà sul mondo, anche se l'uomo ha cercato di mascherare la sua terribile esistenza postulando un Dio cui sarebbe finalizzata e troverebbe senso la sua vita. Dio per il filosofo non può esistere e l'unico assoluto è la volontà stessa. Schopenhauer ritiene che l'unica e infinita volontà di vivere si manifesti nel mondo fenomenico attraverso due fasi distinguibili: nella prima la volontà si oggettiva in un sistema di forme immutabili, che egli chiama "idee"; nella seconda, la volontà si oggettiva nei vari individui del mondo naturale, che sono la moltiplicazione delle idee.

Il Pessimismo

Dolore, piacere e noia

La vita è dolore per esistenza. Infatti volere significa desiderare, e desiderare significa trovarsi in uno stato di tensione, per la mancanza di qualcosa che non si ha e si vorrebbe avere. Il desiderio risulta quindi, per definizione, assenza, vuoto, indigenza: ossia dolore. Nessun oggetto del volere, poi, una volta conseguito, può dare appagamento durevole bensì rassomiglia soltanto all'elemosina, la quale gettata al mendico prolunga oggi la sua vita per continuare domani il suo tormento. Ciò che gli uomini chiamano godimento fisico e gioia psichica, come sostiene anche Leopardi, è nient'altro che una cessazione di dolore. Mentre il dolore, identificandosi con il desiderio, è uno stato primario e permanente, il piacere è solo una funzione derivata del dolore. Schopenhauer pone come terza situazione di base, accanto al dolore e al piacere, la noia, la quale subentra quando vien meno l'aculeo del desiderio. La vita umana è come un pendolo che oscilla incessantemente fra il dolore e la noia, passando attraverso l'intervallo fugace e illusorio del piacere e della gioia. Quindi il dolore costituisce la legge profonda della vita e ciò che distingue i casi e le situazioni è solo il diverso modo e le diverse forme in cui si presenta.

La sofferenza universale

Tutto soffre. Il dolore investe tutte le creature in quanto la volontà di vivere, ovvero il desiderio si manifesta in tutte le cose. L'uomo soffre di più perché ha più consapevolezza. Per la stessa ragione, il genio, avendo maggiore sensibilità rispetto agli uomini comuni, è votato a una maggior sofferenza: "più intelligenza avrai più soffrirai".

Le vie di liberazione dal dolore

Emerge chiaramente come la vita sia sostanzialmente dolore, al di là delle apparenze ingannevoli. Si potrebbe pensare che il sistema di Schopenhauer metta capo a una filosofia del suicidio universale. Ma invece egli rifiuta il suicidio e lo condanna per due motivi: 1) perché il suicidio, lungi dall'essere negazione della volontà, è invece un atto di forte affermazione della volontà stessa in quanto il suicida vuole la vita ed è solo malcontento delle condizioni che gli sono toccate, egli quindi nega la vita; 2) perché il suicidio sopprime unicamente l'individuo, ossia una manifestazione fenomenica della volontà di vivere, lasciando intatta la cosa in sé, che pur morendo in un individuo rinasce in mille altri, simile al sole che appena tramontato da un lato sorge dall'altro. Quindi per Schopenhauer la vera risposta al dolore non è l'eliminazione, tramite il suicidio, ma nella liberazione dalla stessa volontà di vivere, allorquando la voluntas perviene alla coscienza si sé, essa tende a farsi noluntas, ossia negazione progressiva di se medesima. Dalla presa di coscienza del dolore e dal disinganno di fronte alle illusioni dell'esistenza, nascono le varie tappe della liberazione. Schopenhauer articola l'iter salvifico dell'uomo in tre momenti: l'arte, la morale, l'ascesi.

L'arte

L'arte per il filosofo è conoscenza libera e disinteresse che si rivolge alle idee, ossia alle forme pure o ai modelli eterni delle cose. Il soggetto che contempla le idee ovviamente non è più un individuo naturale, sottoposto alle esigenze pratiche della volontà, ma il puro soggetto del conoscere, il puro occhio del mondo. L'arte risulta catartica per essenza, in quanto l'uomo grazie ad essa, più che vivere contempla la vita elevandosi al di sopra della volontà del dolore e del tempo. Fra le arti spicca la tragedia che è l'autorappresentazione del dramma della vita. Posto a sé occupa invece la musica, in quanto essa non riproduce mimeticamente le idee, ma si pone come immediata rivelazione della volontà a se stessa. Non è comunque il modo di uscire dalla vita, anche se solo un conforto. La via della redenzione è su altri sentieri. L'arte distrae solo momentaneamente.

L'etica della pietà

La morale implica un impegno nel mondo a favore del prossimo. L'etica non sgorga da un imperativo categorico dettato dalla ragione, ma da un sentimento di pietà attraverso cui avvertiamo come nostre le sofferenze degli altri. La morale si concretizza in due virtù: la giustizia e la carità. La giustizia che è un primo freno all'egoismo, ha un carattere negativo, poiché consiste nel non fare il male e nell'essere disposti a riconoscere agli altri ciò che siamo pronti a riconoscere a noi stessi. La carità si identifica invece come la volontà positiva e attiva di fare del bene al prossimo. Si propone il traguardo di una liberazione totale. Questa è l'ascesi.

L'ascesi

L'ascesi è l'esperienza per la quale l'individuo cessando di volere la vita e il volere stesso, si propone di estirpare il proprio desiderio di esistere, di godere e di volere. Un primo passo è la castità, ma il vero cammino verso la salvezza mette capo al nirvana buddista. Il nirvana è l'esperienza del nulla, un nulla che secondo quanto insegnano i testi e i maestri dell'Oriente non è il niente, bensì un nulla relativo al mondo, cioè una negazione del mondo stesso.


Il Mondo come Volontà e Rappresentazione

È la sua opera principale, pubblicata nel 1818. Il punto di partenza è fornito dalla kantiana distinzione tra Fenomeno - la realtà come ci appare: applicando le nostre forme di conoscenza (sensibilità, intelletto, ragione), possiamo organizzare e classificare, a livello mentale, le immagini che ci circondano; e Noumeno – la “Cosa in sé”, la vera essenza delle cose che vediamo. Non appartiene al soggetto, ma è indipendente dall'uomo: una sorta di Iperuranio, dove le “Idee” degli oggetti vivono eterne e distanti. Schopenhauer modifica leggermente questo concetto, definendo fenomeno l'illusione, la parvenza, separata attraverso il velo di Maya dal Noumeno, la vera realtà che si nasconde e che il filosofo deve scoprire (bisogna ricordare che Kant considerava i fenomeni più o meno veritieri visto che erano legati ad una realtà, anche se inconoscibile). Ancora differentemente da Kant, Schopenhauer parla di fenomeno come rappresentazione che esiste solo dentro la coscienza, e non ne è scissa. All'interno della rappresentazione esistono due elementi inseparabili: il soggetto rappresentante e l'oggetto rappresentato. Essi sono dipendenti l'un dall'altro, e l'uno è causa e conseguenza dell'altro. Sono perciò errati sia il Materialismo (che nega il soggetto, riducendolo all'oggetto), sia l'Idealismo (che nega l'oggetto, riducendolo al soggetto). La rappresentazione, inoltre, si basa su tre forme a priori:

  • Spazio;
  • Tempo;
  • Causalità (le altre 12 categorie individuate da Kant sono, per Schopenhauer, riconducibili ad essa).

Queste forme a priori sono come le sfaccettature di un vetro, attraverso cui la visione delle cose si deforma, ma non le cose stesse. Ne risulta che “la vita è sogno”, una sorta di incantesimo, e per avvalorare la sua teoria, Schopenhauer cita i filosofi Veda, Platone, Pindaro, Sofocle, Shakespeare, Calderón de la Barca. Sulla realtà vera l'uomo, in quanto animale metafisico - e che pertanto si stupisce della propria esistenza - tende a interrogarsi, in diretta proporzione alla sua intelligenza. Schopenhauer afferma che stracciare il velo di Maya, passare da Fenomeno a Noumeno, sia possibile: l'uomo stesso non è solo rappresentazione, ma è anche Cosa in sé (il corpo), cioè noi, non solo ci vediamo dall'esterno, ma viviamo dall'interno. La via per conoscerci come Cosa in sé è lasciarsi vivere,lasciarsi andare e, intuitivamente, sentire in sé la vita. La ragione serve solo per il fenomeno: per passare al Noumeno occorre abbandonare il fenomeno e lasciarsi guidare dall'intuizione. Questa esperienza rende possibile la conoscenza dell'essenza profonda del nostro Io, che è Volontà di vivere (Wille zum leben). Questa volontà è l'impulso alla sopravvivenza, quella spinta irresistibile che ci fa esistere: noi siamo, dunque, vita e Volontà di vivere, e il nostro corpo è la manifestazione esteriore dei nostri desideri interiori: l'apparato digerente, ad esempio, è la manifestazione fenomenica della volontà di nutrirsi. Il mondo è, dunque, volontà e rappresentazione. La Volontà di vivere è:

  • inconscia, infatti è più un impulso, è un'energia piuttosto che volontà cosciente;
  • unica, perché stando al di fuori dello spazio e del tempo si sottrae al principium individuationis;
  • eterna, cioè senza principio né fine perché al di là del tempo;
  • incausata, perché oltre la categoria di causa;
  • senza scopo oltre sé stessa.

Essa inoltre appartiene a tutti gli esseri viventi, ma solo l'uomo può averne consapevolezza. Dio è stato creato dagli uomini per “mascherare” la crudele verità sul mondo: la vita non ha senso, non esiste un fine, né un destino; tutti gli esseri viventi, siano essi vegetali o animali, non vivono con altro scopo che vivere e proseguire la specie. Tutto il mondo è investito dalla sofferenza: volere significa essere mancanti di qualcosa, perciò essere in uno stato di tensione. Quando un desiderio viene appagato sopraggiunge la noia, e il ciclo ricomincia, perché per ogni brama sedata ne scaturiscono altre; il piacere inoltre, non è che temporanea e fugace cessazione di dolore, dunque funzionale e dipendente da esso. Non può verificarsi il caso contrario perché un individuo può sperimentare una serie di dolori senza essere preceduti da piaceri, invece ogni piacere nasce alla fine di un particolare dolore. La vita è un pendolo che oscilla tra il dolore e la noia. La legge che regola il mondo è quella del più forte: la lotta per la sopravvivenza spinge a crudeltà ed egoismi: il male, infatti, non appartiene al mondo, ma è il Principio che lo porta avanti. In questa prospettiva, ogni potere, ogni prerogativa è sottratta all'uomo: il libero arbitrio, l'esistenza (e la sopravvivenza post-mortem) dell'anima, l'amore.

La concezione dell'amore

L'amore rappresenta nella filosofia schopenhaueriana lo stimolo più forte dell'esistenza: dietro a Cupido si cela il Genio della specie, che desidera la perpetuazione della vita: l'amore è un potente mezzo usato dalla Natura ai fini dell'accoppiamento. L'incanto e il lato romantico sono maschere costruite dall'uomo per celare questa dura e triste verità: il desiderio sessuale è il motore dell'innamoramento, nient'altro.

Il rifiuto degli ottimismi

Ogni forma di ottimismo è in questa ottica falsa e illusoria:

  • Cosmico (Hegel): vedere nel mondo la perfezione di una sistema, l'organizzazione provvidenziale di un qualsivoglia Dio, Spirito, Sostanza o Ragione, è un'illusione consolatoria; le religioni sono “metafisiche per il popolo”, o, come disse Marx, “l'oppio dei popoli”.
  • Sociale (Rousseau): l'uomo non è buono per natura, e non sono state le leggi imposte dalla società a corromperlo; homo homini lupus, l'unica regola universale è questa, i rapporti umani sono sempre conflittuali perché mossi dal desiderio di sopraffazione reciproca. Riprendendo Hobbes, Schopenhauer afferma che se gli uomini vivono insieme in società è solo per convenienza.
  • Storico : la storia ci insegna solo che l'uomo è sempre uguale, non che egli muterà; la vita è segnata dal ciclo nascita-sofferenza-morte, non esiste alcun destino, né alcuna missione.

Le vie di liberazione dal dolore

Inizialmente, Schopenhauer prende in esame il suicidio. In posizione anti-stoica, il filosofo condanna questa pratica, perché non nega, ma afferma la volontà, negando piuttosto la vita. Inoltre, attraverso il suicidio viene soppressa unicamente la manifestazione fenomenica della Volontà di vivere, mentre la Cosa in sé continua ad esistere. La prima tappa, secondo Schopenhauer, è l'arte: conoscenza libera e disinteressata delle Idee, essa prende in considerazione le Essenze, non le forme;in particolare, la musica, non avendo contenuto rappresentativo, è immediata e catartica. L'arte non può, però, essere la soluzione finale o perché riguarda pochi ed è temporanea. La seconda tappa è la pietà: dall'esperienza vissuta, l'uomo deve riuscire a superare l'egoismo avvertendo come proprie le sofferenze altrui. In particolare, Schopenhauer pone enfasi su due tipi di pietà: la giustizia (in quanto volontà positiva e attiva di fare del bene al prossimo) e la carità (amore disinteressato), ma la vittoria non è ancora totale. L'ultima tappa è l'ascesi (ossia la cessazione di qualsiasi tipo di esistenza,voglia o godimento), scandita a sua volta in tre punti:

  • Mortificazione di sé (non cercare il piacere);
  • Castità (non perpetuare il dolore);
  • Inedia (lasciarsi morire di fame).

Questa è la vera soluzione: l'estenuazione dell'organismo, che apre al Nirvana, un abbandono totale della ragione, un'esperienza del Nulla. Per negare la Volontà di vivere, l'uomo deve innalzare la Noluntas a sistema di vita, tentando di ignorare e disprezzare i motivi che il suo intelletto - schiavo della Volontà - gli fornisce.

Kant


VITA
Immanuel Kant nacque a Konigsberg, nella Prussia orientale, nel 1724, da una famiglia di modeste condizioni economiche. Nel 1732 entrò nel Collegium Friedercianum e dal 1740, per circa sei anni, frequentò i corsi di filosofia, matematica e di teologia dell'università della sua città natale, dove studiò la dottrina newtoniana e l'opera di Wolf.
Conclusi i suoi studi universitari, Kant divenne per circa nove anni istitutore presso alcune famiglie nobili in varie località della Prussia orientale. Nel 1755 ottenne la libera docenza all'università di Konigsberg, dove tenne dei corsi liberi, finché nel 1770 non gli venne assegnata la cattedra ufficiale di filosofia, cattedra che conservò fino al 1796.
Gli ultimi anni del suo insegnamento furono segnati da un contrasto sorto con il governo prussiano, che gli vietò l'insegnamento di alcune dottrine religiose presentate in un suo scritto.
Morì a Konisberg nel 1804.

PENSIERO

Il periodo precritico
La prima fase della produzione di Kant è caratterizzata dall'interesse verso le scienze e la filosofia naturale, nell'intento di descrivere i fenomeni senza dover ricorrere a cause puramente ipotetiche. Nella Storia universale della natura e teoria del cielo, sotto l'influsso di Newton, questi applica le forze di attrazione e repulsione per elaborare una teoria meccanicistica riguardante la formazione dell'universo, senza la necessità di dover ricorrere ad argomenti teologici al fine di spiegare i fenomeni naturali. Alle opere di argomento scientifico, segue una serie di scritti tesi a tentare una riorganizzazione della filosofia, nei quali vanno progressivamente delineandosi i temi di quella che sarà poi la filosofia trascendendale kantiana. Qui Kant si propone di cercare un metodo filosofico rigoroso per approdare ad una certezza metafisica che sia paragonabile a quella raggiunta nell'ambito delle scienze sperimentali. Egli critica la metafisica tradizionale, contrapponendole una metafisica intesa come scienza dei limiti della ragione.

La Critica della ragion pura
Nella Critica della ragion pura Kant si propone di sottoporre a giudizio la ragione umana. Per critica della ragion pura qui si intende l'indagine rigorosa "della facoltà della ragione riguardo a tutte le conoscenze a cui può aspirare indipendentemente da ogni esperienza", al fine di poter stabilire la possibilità di una metafisica come scienza. La conoscenza dovuta all'esperienza è detta a posteriori, mentre quella che è indipendente dall'esperienza è detta a priori. Solo la conoscenza a priori è universale e necessaria. La conoscenza si compone di una materia (le impressioni sensibili derivanti dall'esperienza) e da una forma (l'ordine e l'unità che le nostre facoltà conferiscono alla materia). La conoscenza scientifica, come opera nella matematica e nella fisica, è una sintesi a priori, vale a dire che contiene giudizi sintetici a priori, dove sintetico significa che il predicato aggiunge qualcosa di nuovo al soggetto, e a priori vuol dire universale e necessario e perciò non derivante dall'esperienza. L'opera ha quindi lo scopo di rispondere alla domanda come siano possibili giudizi sintetici a priori, ovvero come è possibile la scienza, visto che opera con simili giudizi. Tali "condizioni di possibilità" della scienza e della conoscenza risiedono negli elementi a priori che ordinano le impressioni: l'oggetto dell'esperienza risulta da una sintesi tra un dato della sensibilità e un elemento a priori e Kant chiama tale oggetto fenomeno. La Critica della ragion pura vuole indagare gli elementi formali, o trascendentali, della conoscenza, dove con trascendentale si intende una conoscenza "che si occupa non di oggetti, ma del nostro modo di conoscenza degli oggetti". Tale inversione nel rapporto conoscitivo per cui è l'oggetto ricevuto dalla sensibilità e pensato dall'intelletto che si adegua al soggetto conoscente e non viceversa viene definita da Kant la rivoluzione copernicana del pensiero. La Critica della ragion pura si divide nell'estetica trascendentale e nella logica trascendentale, la quale è a sua volta suddivisa in analitica trascendentale (analitica dei concetti e analitica dei princìpi) e dialettica trascendentale.
L'estetica trascendentale determina le forme pure della sensibilità, entro cui le sensazioni sono ordinate. Queste sono le intuizioni pure di spazio e di tempo, che possiedono una realtà empirica ed una idealità trascendentale, condizionando il modo delle cose di apparire a noi. Se la sensibilità è recettività, l'intelletto è spontaneità e la sua attività è il giudizio. Ne deriva che pensare altro non è che giudicare.
La logica trascendentale astrae dal contenuto empirico e tratta dei concetti puri, o categorie dell'intelletto. L'attività dell'intelletto si esplica nel giudicare secondo classi (quantità, qualità, relazione, modalità) che si articolano in funzioni intellettuali, le dodici categorie: unità, realtà, sostanzialità e inerzia, possibilità e impossibilità, molteplicità, negazione, causalità e dipendenza, esistenza e inesistenza, totalità, limitazione, comunanza e reciprocità di azione, necessità e casualità. Per applicare le categorie agli oggetti dell'esperienza occorre il passaggio della deduzione trascendentale. Se infatti nella sensibilità il molteplice dell'esperienza viene ordinato secondo le intuizioni di spazio e di tempo, nell'intelletto il molteplice dato dalla sensibilità deve sottomettersi "alle condizioni dell'unità sintetica originaria dell'appercezione": l'Io penso. Il pensiero di un oggetto mediante i concetti dell'intelletto può diventare conoscenza solo se relazionato agli oggetti dei sensi. Questo significa che pensare e conoscere non sono la stessa cosa: un oggetto può essere pensato tramite le categorie, ma tale oggetto pensato può essere conosciuto solo mediante le intuizioni sensibili di spazio e tempo.
L'analitica dei princìpi insegna ad applicare i concetti ai fenomeni, e questo implica che sia trovata una mediazione tra sensibilità e intelletto, tra intuizione e concetto. Occorre cioè un terzo termine, omogeneo con il concetto, che è intellettuale, e con il fenomeno, che è sensibile: si tratta dello schema trascendentale, un prodotto dell'immaginazione. L'immaginazione configura nel tempo (che è a priori come le categorie dell'intelletto e intuibile come le forme pure della sensibilità), secondo le varie categorie, il materiale fornito dalla sensibilità.
La dialettica trascendentale intende dimostrare che i giudizi sintetici a priori valgono solo per le cose come appaiono, per i fenomeni. I giudizi sintetici a priori risultano pertanto illegittimi se applicati alle cose in sé, che Kant definisce noumeni e ci dice essere inconoscibili. Ne deriva che se le categorie hanno una funzione costitutiva nella conoscenza, le tre idee di anima, mondo e Dio, fondamento del sapere metafisico, hanno solo una funzione regolatrice e sono pensate dalla ragione, che a differenza dell'intelletto non opera sui dati sensibili, gli unici veramente conoscibili. La ragione tende ad unificare i dati interni attraverso l'idea di anima, i dati esterni attraverso l'idea di mondo e a fondare tutto l'esistente nell'idea di Dio.
L'errore nasce se la ragione pretende di entificare, di trasformare cioè in enti reali, queste idee di cui non abbiamo alcuna esperienza, traendone una conoscenza, la metafisica tradizionale, che è illusoria poiché pretende di andare oltre i limiti dell'esperienza sensibile. Risulta perciò negativa la risposta alla domanda iniziale, ossia se sia possibile una metafisica come scienza.

La Critica della ragion pratica
Scopo della Critica della ragion pratica è la ricerca delle condizioni della morale. Nell'uomo è presente una legge morale (un fatto della ragione) che comanda quale imperativo categorico, vale a dire incondizionatamente. Questa legge del dovere comanda per la sua forma di legge, come norma che prescrive di obbedire alla ragione, e perciò a differenza della massima (che regola la condotta individuale) deve essere universale, principio oggettivo valido per tutti: indica come fine il rispetto della persona umana e afferma l'indipendenza della volontà come pure l'autonomia della ragione. Il dovere per il dovere indirizza quindi a quell'ordine morale, il regno dei fini, in cui il valore di un'azione dipende dalla conformità della volontà alla prescrizione della legge morale. I postulati della legge sono innanzitutto e fondamentalmente la libertà (se l'uomo non fosse libero non ci sarebbe moralità), l'immortalità dell'anima (poiché nel nostro mondo non si realizza mai la piena concordanza della volontà alla legge che rende degni del sommo bene) e l'esistenza di Dio (che fa corrispondere la felicità al merito acquisito). Così le idee della ragione (anima e Dio), solo pensabili nella Critica della ragion pura, ora si presentano come postulati della moralità.

La Critica del giudizio
Tra il mondo dei fenomeni, di cui si dà scienza, e il regno dei fini, sottratto al determinismo e del tutto libero, c'è eterogeneità, eppure il mondo noumenico (cioè "pensato quale deve essere secondo i dettami della legge morale") deve avere qualche riflesso su quello sensibile perché la libertà possa attuarvisi.
L'attività del giudizio, argomento della Critica del giudizio, deve proprio scorgere questo riflesso del regno dei fini sul mondo fenomenico e lo può fare in due modi: quale giudizio determinante o quale giudizio riflettente. Il caso del giudizio determinante è quello del giudizio gnoseologico e morale, in cui è già data una norma universale che permette all'intelletto e alla volontà di determinare il particolare, ossia il dato della scienza o l'azione della morale, sussumendolo sotto le categorie dell'intelletto o sotto la legge morale (per esempio: la combustione del legno è dovuta al fuoco; questa azione è giusta). L'esigenza del giudizio riflettente consiste nel fatto che, dato il molteplice empirico, è necessario trovare il suo principio unitario, la finalità della natura, formulato dalla facoltà di giudizio riflettendo su se medesima e sulla propria esigenza di unità. Il giudizio riflettente può essere di tipo estetico, riguardante cioè la bellezza, e di tipo teleologico, o finalistico, riguardante cioè gli scopi della natura: entrambi si fondano sulla finalità, vale a dire su un rapporto di armonia e di accordo reciproco fra parti, e non hanno valore conoscitivo.


Hume


VITA
Filosofo inglese (Edimburgo 1711-1776). Attratto fin da giovanissimo dagli studi di filosofia e di erudizione storica, si recò in Francia dove rimase dal 1734 al 1737. Risale a questo periodo la composizione della sua prima e fondamentale opera, il Trattato sulla natura umana (1738). Rientrato in Inghilterra, pubblicò nel 1742 i Saggi morali e politici. Nel 1748 pubblicò le Ricerche sull'intelletto umano, nel 1751 le Ricerche sui principii della morale, e la Storia naturale della religione nel 1757. I dialoghi sulla religione naturale, composti vari anni prima, apparvero postumi nel 1779 a causa del loro dichiarato ateismo. Da ricordare, infine, la pubblicazione della Storia d'Inghilterra (1763).

PENSIERO
La filosofia di Hume rappresenta l'estremo sviluppo dell'empirismo inglese. La conoscenza non è innata ma sorge dall'esperienza. Hume nega sia la sostanza materiale sia quella spirituale, tutto riducendo a sensazione e stato di coscienza.
Queste percezioni si dividono, secondo Hume, in due classi, che si differenziano soltanto per la maggiore o minore vivacità con cui si presentano al soggetto: le impressioni e le idee, che sono la copia delle impressioni.
Quanto ai rapporti che legano tra loro le sensazioni da noi provate, cioè gli stati di coscienza, Hume li riduce, seguendo la linea tradizionale dell'empirismo, alle leggi dell'"associazionismo", cioè ai rapporti di somiglianza, di continguità nel tempo e nello spazio e, infine al rapporto di causa.
Il più importante risultato conseguito da Hume è la critica del concetto di causa. Che cosa può significare - si domanda Hume - l'affermazione che A è causa di B? Non certo che B sia dedotto e ricavato da A: perché in tal caso B dovrebbe essere già contenuto implicitamente in A e, quindi, identico ad esso, mentre sappiamo che l'effetto è sempre qualcosa di originale e di nuovo rispetto alla causa. Hume conclude che la legge di causa non è una vera e propria legge oggettiva ma è solo un abito della nostra mente, un "costume" suscitato dall'"abitudine". Nel corso dell'esperienza si forma in noi uno stato d'animo d'attesa il quale ci fa presumere che, osservando in futuro A saremo costretti a ritrovare sempre anche B. Questa attesa è perciò del tutto soggettiva e nulla garantisce che essa debba venire soddisfatta. Né la logica né l'esperienza, quindi, possono dimostrare il principio.di causa. Se una legge si è costantemente verificata nel passato, nulla ci assicura che la stessa legge sarà valida anche in futuro.
Conoscenze assolutamente certe o, per meglio dire, veramente universali e necessarie sono soltanto quelle della geometria, dell'algebra e dell'aritmetica: perché esse non riguardano realtà di fatto ma semplici operazioni mentali costruite con simboli convenzionali (i simboli matematici). Anche se non esistesse in natura neppure un circolo o un triangolo, le verità dimostrate da Euclide conserverebbero sempre la loro perfetta evidenza, perché esse non hanno niente a che fare con l'esistenza reale alla quale si riferiscono invece le impressioni sensibili. Esse sono verità di ragione e non verità di fatto. Costruite sul principio di identità e di non-contraddizione, esse non tollerano il contrario. Il contrario di un fatto è, invece, sempre possibile. Se io dico: il sole domani non sorgerà, questa proposizione è perfettamente intelligibile e altrettanto coerente quanto l'altra che afferma che il sole domani si leverà. Dimostrarne la falsità a priori è impossibile.
La tesi fondamentale di Hume, quindi, è che le leggi su cui si fondano le scienze, come la fisica, la chimica, ecc., sono soltanto "probabili". Il loro grado di verità è dato dal loro grado di probabilità, cioè dall'indice di frequenza statistica; perfettamente razionali sono solo quelle scienze che, come le matematiche, vertono esclusivamente sulle idee e sui rapporti formali senza coinvolgere in alcun modo il mondo dell'esperienza.
La vecchia metafisica ha scambiato per nessi oggettivi dei rapporti istituiti da noi sulla base dell'abitudine. Essa ha popolato il mondo di false entità o "essenze" per se stanti e indipendenti.
Ciò che ci salva dall'incertezza radicale, dalla paralisi del dubbio e dallo scetticismo indiscriminato è, secondo Hume, il sentimento naturale della "credenza", cioè quel sentimento che sorge in noi per la maggiore vivacità e immediatezza che hanno le impressioni dirette rispetto ai pensieri e alle idee. Ciò che ci salva, insomma, è la "certezza sensibile": una certezza che non possiamo generalizzare né tradurre in legge universale ma che, sul momento, è tuttavia imperiosa e forte come tutto ciò che si sia sperimentato di persona.
In conformità con questo atteggiamento antimetafisico, per Hume la vita morale non consiste in un agire conforme a ragione, giacché quest'ultima non è né morale né immorale, bensì nel dare libero corso a quel sentimento o istinto di simpatia e di socievolezza nel quale Hume ripone il senso più genuino dell'esperienza etica e sociale. La società nasce dal sentimento di simpatia che gli uomini provano naturalmente gli uni per gli altri. Il suo scopo è quello di armonizzare gli interessi individuali con quelli collettivi. Dal punto di vista della religione, data l'impossibilità di trascendere l'esperienza, Hume deduce che è impossibile dimostrare razionalmente l'esistenza di Dio. La religione non è, per Hume, un fatto di scienza, tutt'al più un fatto di natura.

Locke


VITA
John Locke nacque a Wrington, nei pressi della città di Bristol, nel 1632. Entrò ventenne all'università di Oxford, nella quale conseguì il baccellierato ed il diploma di maestro delle arti nel 1658, per poi rimanervi diversi anni in qualità di insegnante. Qui, tra gli anni che vanno dal 1660 al 1667, si interessò di medicina, di chimica farmaceutica, di problematiche politiche e religiose.
Nel 1667 si trasferì a Londra al seguito del conte di Shaftesbury, il quale, divenuto lord cancelliere, nel 1672, lo volle come collaboratore nell'attività politica.
Dopo una prima caduta in disgrazia di Shaftersbury, Locke tornò per qualche tempo ad Oxford, dove conseguì la laurea in medicina, recandosi poi in Francia, dove rimase per circa tre anni. Seguì poi le alterne vicende politiche di Shaftesbury e fu con lui in Olanda, paese in cui questo si era rifugiato dopo il fallimento della sua lotta contro il re Carlo II (1683).
Solo nel 1689 Locke poté tornare in Inghilterra, quando, deposto Carlo II, sul suo trono salì Guglielmo d'Orange, riprendendo da lì a poco l'attività politica.
Passò gli ultimi anni della sua vita ad Oates, nell'Essex, dove morì nel 1704.


PENSIERO
Al centro della filosofia di Locke troviamo la sua teoria della conoscenza. A questa spetta il compito di esporre l'origine e i fondamenti della conoscenza umana, e, al tempo stesso, scoprire i limiti delle facoltà conoscitive dell'uomo.
Nella propria coscienza, ogni uomo trova determinate rappresentazioni, le idee, dove col termine idea Locke indica tutto ciò che sia l'oggetto dell'intelligenza quando l'uomo pensa.
Ma da dove provengono le idee? Esse derivano esclusivamente dall'esperienza. Locke contesta la teoria dell'innatismo, secondo la quale l'uomo possiede idee innate, presenti in lui in una fase precedente a ogni tipo di esperienza. Al momento della nascita, la nostra mente è una sorta tabula rasa. Tutte le rappresentazioni si sviluppano solo con il tempo e traggono origine esclusivamente a partire dall'esperienza. Nonostante ciò, la facoltà di costruire rappresentazioni esiste in precedenza.
L'esperienza si basa su due fonti: la sensazione che deriva dal senso esterno e la riflessione che, derivando dal senso interno, si riferisce agli atti del pensare, del volere, del credere, ecc. Le idee prodotte da queste due attività possono essere semplici o complesse. Le idee semplici si suddividono, a loro volta in idee che possono essere percepite solo da un senso (colori, suoni), idee che vengono colte attraverso più sensi (spazio, movimento), idee che nascono dalla riflessione (processi interiori della coscienza), idee che comportano la partecipazione di riflessione e sensazione (piacere, tempo). Rispetto alle rappresentazioni semplici la nostra mente si comporta in modo passivo: esse provengono direttamente dagli stimoli esterni. Per quanto riguarda la sensibilità, Locke distingue le qualità primarie, proprie delle cose esteriori in quanto tali (estensione, figura, solidità, densità, numero) dalle qualità secondarie, soggettive (colore, sapore, odore).
La mente possiede, peraltro, anche la capacità attiva di produrre, paragonando, separando, collegando e astraendo, idee complesse, i cui elementi costitutivi sono ancora le idee semplici. Le idee complesse possono essere raggruppate in tre categorie distinte: sostanze, modi e relazioni. Le sostanze sono cose distinte, sussistenti per se stesse, o specie (come uomini o piante). I modi sono idee complesse, che non sussistono per se stesse, ma si accompagnano alle sostanze (il giorno, ad esempio, è un modo semplice del tempo). Ci sono, poi, i modi misti, ai quali appartengono anche i giudizi morali (la giustizia). Le relazioni sono idee complesse, come quelle di causa ed effetto.
"La mente non possiede, con tutto il suo pensare e dedurre, nessun altro oggetto immediato che le sue proprie idee. Pertanto, appare chiaro che la nostra conoscenza ha a che fare solamente con le nostre idee. La conoscenza non mi sembra essere null'altro che la percezione della connessione e dell'accordo o disaccordo o ripugnanza tra alcune delle nostre idee." L'ambito della nostra conoscenza è perciò limitato: non può andare oltre le idee che possediamo e fino alla possibilità di percepire l'accordo o il disaccordo fra di esse. Non è neppure possibile avere una visione d'insieme di tutte le nostre idee e dei possibili rapporti esistenti fra di esse. Ne deriva che la nostra conoscenza può cogliere la realtà delle cose solo in modo limitato e come la nostra capacità percettiva consente. A seconda del grado di chiarezza si distinguono diversi livelli di conoscenza:

1) Il livello più alto è quello della conoscenza intuitiva. In questo caso, la mente percepisce l'accordo o il disaccordo di due idee in modo immediato e tramite se medesima (per esempio, che un cerchio non è un quadrato).

2) Il livello intermedio è quello della conoscenza dimostrativa. In questo caso la mente riconosce l'accordo o il disaccordo delle idee, ma non per via diretta, bensì tramite il ricorso ad altre idee. A questo tipo di conoscenza appartengono i procedimenti deduttivi in base a prove.

3) Il terzo livello, infine, è quello della conoscenza sensitiva dell'esistenza di un numero infinito di singoli esseri che sussistono al di fuori di noi.

La verità può riferirsi solamente alle proposizioni, questa infatti consiste nella connessione corretta o nella distinzione di segni, con riguardo alla corrispondenza con le cose indicate. Visto che la nostra conoscenza è limitata e che nella maggior parte degli ambiti non è possibile raggiungere certezza assoluta, ai fini dell'effettiva gestione dell'esistenza, acquista notevole importanza la probabilità, la quale ci consente di integrare le lacune conoscitive. Essa riguarda proposizioni che, sulla base della nostra propria esperienza o della testimonianza degli altri, abbiamo motivo di ritenere vere. L'atteggiamento della mente nei confronti di tali proposizioni è detto credenza, opinione, o assenso. bene e male sono determinati in base alla gioia o al dolore prodotto. L'agire umano è volto a conseguire la gioia (felicità) e a evitare il dolore. Pertanto, i principi normativi, ovvero le leggi morali, sono in rapporto ai premi e ai castighi. "Ciò che moralmente è bene o male è, quindi, solo l'accordo o il disaccordo dei nostri atti intenzionali con una legge attraverso la quale noi riceviamo del bene o del male a seconda della volontà e del potere del legislatore." Vengono identificati tre tipologie di leggi morali:

1) la legge divina, misura del peccato e del dovere, così come essa è imposta direttamente da Dio all'uomo e viene collegata a una pena o a una ricompensa ultraterrena;

2) la legge civile, ovvero l'insieme delle regole imposte dallo Stato, le quali stabiliscono la punibilità delle azioni;

3) la legge dell'opinione pubblica o della reputazione, chiamata da Locke anche legge filosofica, poiché principalmente è stata la filosofia a occuparsene (il vizio e la virtù; il rispetto e il disprezzo).

Nello stato di natura, precedente all'aggregarsi degli uomini in società, regnano la piena libertà e uguaglianza. Il singolo ha un illimitato potere discrezionale su se stesso e sui suoi beni. Tuttavia, ognuno è sottoposto alla legge di natura, il cui sommo principio è la conservazione della natura creata da Dio. Ne deriva il divieto da parte del diritto naturale di arrecare danno alla vita, alla salute, alla libertà e ai beni del prossimo e, ancor più, di distruggerli. Lo stato di natura potrebbe, perciò, al contrario di quanto sostenuto da Hobbes, corrispondere a una condizione di pace, se non esistessero determinati individui che costantemente hanno la tendenza a violare la legge su cui esso è costruito. Poiché tutti sono uguali, ognuno ha diritto di giudicare e punire coloro che abbiano infranto la pace vigente. Essendo però ciascuno, in tal modo, giudice di se stesso, questo condurrebbe, di fatto, a un continuo stato di guerra, se non esistesse un'istanza superiore, alla quale spettano il potere giudiziario e legislativo.
Ai fini della pace e dell'autoconservazione, gli uomini si aggregano, pertanto, in base a un contratto sociale, in comunità, affidando a un'istanza superiore il potere legislativo, il potere giudiziario e il potere esecutivo. Il potere statale è, però, legato alla legge di natura. In particolare, devono essere rispettati l'istinto dell'individuo all'autoconservazione, la sua libertà e i suoi beni. Il benessere generale ha valore di norma vincolante. Per evitare il rischio di un governo assolutistico è necessaria una ripartizione dei poteri. Nel caso in cui un governante violi le leggi, il popolo ha il diritto di deporto tramite una rivoluzione.
Per quel che riguarda l'esercizio della religione, Locke auspica la tolleranza da parte dello Stato. La scelta di appartenere a una comunità di fede deve essere libera e lo Stato non ha alcun diritto di intromissione nei suoi contenuti.
Nell'ambito dello stato di natura vige la comunione dei beni. Ma al fine di rendere utilizzabili i beni naturali come mezzo di conservazione dell'individuo, questi devono essere acquisiti. La legittimazione della proprietà privata è data dal lavoro. Ognuno ha una proprietà nella propria persona e ciò che egli ricava dalla natura attraverso il proprio lavoro diviene sua proprietà. Poiché, peraltro, ognuno è autorizzato ad accumulare quanto può consumare, non si sviluppano, inizialmente, grandi concentrazioni di proprietà. La situazione cambia radicalmente con l'introduzione della moneta, che avviene con l'assenso di tutta la comunità. Dato che questa consente di raccogliere più di quanto sia possibile consumare, sorge l'accumulo dei beni, e specialmente di grandi proprietà terriere. La distribuzione ineguale della proprietà è però considerata tacitamente giusta, poiché l'introduzione della moneta è stata accettata da tutta la società.